“Dobbiamo proteggere la nostra mente dalle immagini di morte e disperazione. Creare una zona protettiva che permettere alla mente di esercitare le sue funzioni trasformative e simboliche. Altrimenti la “troppa realtà esterna” prende tutto lo spazio del nostro mondo interiore e non ci lascia modo di entrare in relazione con i contenuti della guerra. Per poter essere di aiuto, dobbiamo prima mettere al sicuro la nostra mente”.
Il “pensiero riflessivo”, a differenza di quello “non pensato” e direttamente agito, in cui prevalgono gli aspetti sensoriali, emozionali e somatici della mente, si caratterizza per la possibilità di essere (diventato) un contenuto narrativo con cui poter stabilire una relazione mantenendo da esso “un certo distacco”, che permette di riflettere e valutare, da più vertici osservativi, i diversi scenari evolutivi cui è destinato. Un pensiero che diventa orientato verso una meta. Qualcosa dotato di “flessibilità” che può essere trasformato e ri-trasformato all’interno di un contenitore, la nostra mente, per dare inizio a un lavoro psichico di produzione simbolica. Una sorta di testo (il pensiero) contenuto in una ipotetica pagina di un libro (la mente) il cui finale, sebbene indirizzato, resta ancora da scrivere e troverà diverse collocazioni grazie a un confronto costante con la realtà.
Il pensiero, nel tempo della guerra, è costantemente “messo alla prova” dalla realtà nella sua capacità narrativa poiché la mente viene, assai spesso, aggredita da immagini traumatiche provenienti dalla guerra, dovendo integrare immagini di morte con immagini di vita, necessarie alla costruzione di storie all’interno delle quali ci dobbiamo porre anche noi. In ogni pagina di questo “libro” abbondano morte e disperazione. Con i relativi affetti legati. La capacità di narrazione non può essere “data per scontata”. Tipico è il caso di chi ha subito un trauma e “non riesce (più) a parlare” di quanto accaduto.
La nostra attuale comprensione dei processi cerebrali ci ha insegnato e mostrato “il vuoto” di memoria che deriva da un trauma: sappiamo che l’ippocampo, il quale registra la memoria episodica (il senso che “questa cosa è successa a me”, che “io mi trovavo lì”), è reso silente dai glucocorticoidi secreti durante l’esperienza traumatica. Dunque, la memoria episodica non è “strutturata” sin dall’inizio. Dopo un trauma, può esserci la memoria semantica (la descrizione dei fatti da parte di terze persone dopo l’evento), la memoria procedurale (l’esperienza fisica dell’evento, o “memoria somatica”) e la memoria emotiva (sentire le emozioni che si erano attivate durante l’evento quando qualcosa, ad esempio trovarsi nello stesso luogo in cui esso è accaduto, le richiama), ma non può mai esserci memoria episodica (Solms e Turnbull, 2002). Una storia in cui “manca” il protagonista.
Fare esperienza di qualcosa significa, per noi uomini, viverla nella sua interezza, in un percorso interiore che dalle sensazioni più immediate della percezione risale attraverso l’innescarsi di emozioni e sentimenti, di associazioni e memorie che si inerpicano fino agli strati più alti della coscienza, là dove l’integrazione di ogni parte trova il suo compimento. Io so chi sono, io so cosa sento, io so cosa sta succedendo, io so cosa farò. Ma la guerra è una non-esperienza perché rende impossibile questo concatenarsi di passaggi. (Bertuzzi, State on the Mind, La lunga Attesa, Bion).
Quali sono le trasformazioni che si realizzano nel pensiero in tempo di guerra? Quali le fratture, i cambiamenti, gli adattamenti a cui è sottoposto il pensiero? In che modo possiamo creare queste immagini dinamiche capaci di aiutarci a narrare una storia con un inizio, uno sviluppo e uno scenario ipotetico finale? Come fare interagire le tante immagini di morte che invadono la mente, con quelle che rendono possibile la nostra vita?
Diciamo, da subito, che il “mandare avanti” la nostra storia di vita, tra le storie e le immagini della guerra, risulta possibile grazie alla creazione di una zona protettiva che permettere alla mente di esercitare le sue funzioni trasformative e simboliche. Una “zona franca” in cui la “macchina per pensare” può integrare la morte della guerra con la vita (necessaria). All’interno di questi processi mentali, giocano un ruolo importante l’illusione, la speranza e la paura, capaci di comporre un caleidoscopio di immagini all’interno del lavoro di produzione simbolica della mente.