Le immagini, ad esempio, della recente guerra in Ucraina, legate alle diverse emozioni (dolore, impotenza, incredulità…), in un tempo molto breve hanno “invaso” il nostro mondo interno. Nel loro scorrere, senza sosta, amplificate dalla “comunicazione globale” attraverso media tradizionali e social media, è la stessa esperienza della morte a mutare radicalmente di segno[1], dalla sua casualità – in tempo di pace – al suo accadere infinite volte nello stesso giorno sui campi di battaglia lontani e negli schermi dei video di TV e cellulari che ne amplificano e reiterano i connotati. Questa radicalità, questa impossibilità di essere messa da parte della morte, rende ancora più difficile (e importante) creare – nel breve periodo – una zona protettiva all’interno della nostra mente, che non sia invasa, dove la guerra non entra e viene lasciata fuori.
Il pensiero, nel tempo della guerra, viene coinvolto da, almeno, 3 momenti che riguardano la “scoperta” della guerra, “il proteggersi” stabilendo difese che permettono (o meno) l’adattamento e “il dimenticare”. In forma schematica:
- Prendere atto di una improvvisa trasformazione nel mondo esterno (e interno);
- Attivare difese protettive e procedere a un adattamento alla mutata situazione (in una forma di compromesso dove il non adattamento fa prevalere l’insorgenza di sintomi);
- Rimuovere. Il “dopoguerra”, passare oltre, lasciarsi alle spalle le cose.
In tutti e tre i tempi, la necessità principale è quella di realizzare “una qualsivoglia sopravvivenza”, nonostante tutto ciò che conoscevamo e amavamo sia stato smarrito, cercando di costruire un qualche rifugio per la mente andata in frantumi o sul punto di esserlo.
- Prendere atto di una improvvisa trasformazione nel mondo esterno (e interno);
La guerra, solitamente, giunge all’improvviso, non lascia tempo per riflettere.
Il “primo tempo” del pensiero, il prendere atto, è un momento in cui “si subisce” il mutato scenario e si cerca di integrare, in qualche modo, l’immaginario che la guerra ha aperto. Le immagini della guerra arrivano all’improvviso e siamo costretti a confrontarci con un cambiamento generale delle nostre idee e condizioni di vita. Questo tempo cronologico, kronos quantificabile, misurabile, ha una durata diversa per ogni individuo. Costituisce, indipendentemente dalla sua unità di misura, un tempo che si amalgama con i successivi momenti temporali (stabilire difese, adattarsi e dimenticare) unendosi e contribuendo a creare le dimensioni più “personali” di come ognuno di noi reagisce alla guerra. Ognuno lo farà in modo diverso, creando nella mente, un tempo non più solo cronologico ma “unico” “proprio”, un kairos che comporta sempre un andare “aldilà del tempo” collettivo, degli “altri”.
Un passaggio che permette di integrare l’istituzione sociale della guerra nella sua dimensione di iceberg, la parte superficiale e visibile, con un’altra sommersa e nascosta nelle acque profonde, l’istanza personale del Terrificante. La prima ci porta a pensare che vi sia un pericolo esterno da cui difendersi (il nemico reale, le bombe, gli eserciti…), mentre l’altra, quella nascosta, è inconscia e riguarda un’operazione di difesa e di sicurezza di fronte a terribili entità fantasmatiche, “senza carne né ossa”, ma che hanno una pericolosità assoluta che potremmo chiamare “il Terrificante”[2], quale nemico interno e assoluto. Tutte queste operazioni di integrazione hanno, a loro volta, tempi e possibilità diverse. Una non integrazione comporterebbe il doversi difendere sia dalla realtà esterna sia da quella interna, comportando un costo di economia mentale molto grande. Un Terrificante che rischierebbe di prendere la forma di sintomi in cui condensare il troppo dolore psicologico. L’integrazione mentale della guerra svolge, invece, una funzione utile allo psichico perché se riusciamo a reperire nel mondo esterno “qualcosa di cattivo” (nemico) da condannare e “distruggere”, possiamo iniziare a rassicurarci trovando un posto a “questo qualcosa di cattivo” liberando spazio mentale per creare l’illusione, la speranza e la paura, in una sorta di compromesso, tra il mondo esterno e il nostro mondo interno. Possiamo, quindi, attuare quella che Freud ha appunto chiamato deflessione all’esterno dell’istinto di morte, quel processo attraverso il quale la originaria “presenza cattiva” (il Terrificante) viene messa dentro i pericoli del mondo esterno per poterla aggredire e per poterci confrontare con essa.
- Attivare difese protettive e procedere a un adattamento alla mutata situazione (il non adattamento equivale alla manifestazione di sintomi);
Qui collocherei l’Illusione, la speranza e la paura che ci permettono di creare uno spazio di pensiero, più o meno integrato, in cui “mettere la guerra”. In questo “secondo momento” del pensiero. Vediamo le funzioni principali di queste istanze.
Illusione
La guerra è la distruzione di una illusione, quella della possibilità che, grazie a una costante evoluzione, le “pulsioni primitive umane” vengano superate da uno “stato superiore di civiltà”.
Freud ci aveva già messi in guardia sul punto: nello psichico lo stadio evolutivo successivo non cancella quello precedente, in cui possiamo sempre regredire. Il fondatore della psicoanalisi si spinge a dire che la stessa malattia mentale non è altro che una regressione a stadi precedenti e primitivi della mente umana. L’illusione ci ha portati a “giudicare gli uomini migliori di quanto siano in realtà”.
A questo servono le illusioni, a “risparmiarci determinati sentimenti spiacevoli e consentirci alcune soddisfazioni sostitutive. Ma non dobbiamo lamentarci se esse, prima o poi, cozzano contro la realtà e ne rimangono distrutte”. [3] La stessa storia evolutiva della mente umana comporta un passaggio dalle
“fantasie primitive di onnipotenza del Sé del bambino che vengono gradualmente sostituite da fantasie primitive di onnipotenza delle figure di accudimento, a partire dai genitori. Nella nostra crescita scopriremo l’illusione nel vedere i limiti umani dei nostri genitori. Allo stesso modo, la guerra fa cadere l’illusione che “le persone che governano questo mondo siano in qualche modo più sagge e potenti degli esseri umani normali e fallibili”, cosa che viene dedotta “dal grado di disagio che proviamo ogni volta che gli eventi ci ricordano che tale costruzione era soltanto un desiderio”.[4]
Tuttavia, nonostante la guerra provochi la “caduta delle illusioni”, abbiamo bisogno di costruirne altre per continuare a proteggerci dalla “durezza della realtà”, abbiamo bisogno di nuove illusioni protettive. Sottoforma di nuove idealizzazioni. La guerra avrà una fine e ci renderà migliori, la guerra ci permette di proteggere i nostri valori di democrazia (il caso in atto della guerra in Ucraina), l’Invaso deve potersi difendere altrimenti altri stati vedrebbero a rischio la loro sovranità…
In questa nuova tappa del pensiero andiamo a costruire e ad attribuire un valore e un potere speciale a istanze valoriali e a persone (il leader della resistenza,il popolo che combatte per una causa) da cui dipenderemo emotivamente. Nuovi leader, nuovi valori eroi da contrapporre ad un nemico. In una logica di separazione del bene dal male.
Per controbattere il terrore interno, cerchiamo ancora una volta, come avvenuto tanto tempo fa nel tempo della nostra infanzia, una figura di attaccamento onnipotente, onnisciente e assolutamente amorevole e che, attraverso la fusione con questo “Altro meraviglioso”, sia possibile salvarsi nella perfezione che annienta le proprie imperfezioni, difficili da tollerare. Per altre persone sarà invece importante (i pacifisti ad esempio) mantenere una sorta di indipendenza. Infatti, quanto più si è o ci si sente dipendenti, tanto maggiore è la tentazione a idealizzare. La libertà, intesa come indipendenza emotiva, permette di ridurre la tendenza a idealizzare e ci permette di trovare ulteriori spazi di protezione mentale. [5]
Speranza
La speranza è diversa dal desiderio? Sì, è desiderio + tempo. (Bion)
È l’estrema difesa dall’angoscia di morte. Ci permette di “proiettare nel futuro gli elementi positivi in modo che prevalgano su quelli negativi” ed è possibile grazie a processi di mentalizzazione (Fonagy e Bateman 2006), ossia una attività mentale immaginativa che porta a percepire e interpretare i comportamenti propri ed altrui come il risultato di stati mentali interni ed intenzionali, e cioè appunto come il risultato di desideri, credenze, aspettative, bisogni, obiettivi e sentimenti. Qualcosa che può accadere se prima si è creata l’illusione che sia possibile ancora, nonostante tutto, vivere.
In altri termini, mentalizzare può essere definito come quella facoltà che permette di vedere se stessi “dall’esterno” e gli altri “dall’interno”: cambiare di prospettiva, assumendo una prospettiva in terza persona sul proprio io ed una in prima persona sugli altri. La capacità di mentalizzare, e dunque la capacità di rappresentare i comportamenti in termini di stati mentali, permette di mantenere un’immagine di sé stabile nel tempo, un senso continuativo di se stessi nonostante i cambiamenti ambientali e personali: una coerenza fenomenologica che permette di tessere e mantenere il filo della propria storia. Esserci in qualsiasi storia. Avere un posto anche quando la guerra incombe nella storia. Continuare a sognare “nonostante i morti” continuare a sognare i propri sogni.
La paura
Desiderio + Frustrazione = Speranza < > Paura
Se la speranza è la possibilità di mentalizzare, spostare nel tempo un desiderio che vince l’attesa della sua realizzazione (frustrazione) la Paura si colloca sino all’estremo opposto: l’impossibilità di mentalizzare e il “soccombere” a sensazioni dove prevale un “terrore senza nome” che deriva da una immaginazione che proietta nel tempo elementi catastrofici. Nessuna barriera protettiva riesce a contenere una realtà (la guerra) che conferma le peggiori fantasie distruttive di ogni essere umano. Un innato piacere ad aggredire e distruggere legato all’attività della pulsione di morte, che opera in ogni organismo e che mira a portarlo alla rovina e a ricondurre la vita allo stato inorganico. Per non morire con le proprie mani, l’individuo rivolgerebbe all’esterno questa autodistruttività, trasformandola in eterodistruttività di cui la guerra sarebbe espressione massima.
In tempo di guerra gli uomini tendono a regredire a strutture psichiche più primitive. Tuttavia la paura è in relazione con la speranza, ed è da un compromesso tra le due istanze che ogni individuo cerca di trovare un proprio equilibrio cercando di “razionalizzare” la paura, procedendo a operazioni di mentalizzazione che tendono a renderla oggettiva. Chi non riesce in questa complessa operazione di equilibrio, deve ancora una volta “fare i conti” con una paura che arriva del mondo esterno (la terza guerra mondiale) e il Terrificante del proprio mondo interno.
La paura diviene quella di un eterno inconoscibile e inaccessibile, che ci obbliga ad abitare una «posizione di trascendenza».Come conseguenza del nostro vivere le esperienze emotive e del «diventare » tali esperienze. L’oscillazione Speranza < > Paura si colloca proprio in questa dinamica trasformativo/evolutiva della mente umana.
[1] (Freud Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte di fronte alla guerra del 1915)
[2] Fornari, Psicoanalisi della guerra.
[3] (Freud e Einst).
[4] (Nancy McWilliams 1999)
[5] (personalità narcisistiche – “idea che bisogna rendere il Sé perfetto, piuttosto che accettarlo)